Molte persone ahimè hanno provato sulla loro pelle i sintomi della depressione clinica: tristezza opprimente, totale mancanza di energie e vitalità, perdita di piacere nello svolgere attività che prima suscitavano appagamento, problemi con la regolazione del sonno e con l’alimentazione. Abbiamo potuto evidenziare negli articoli precedenti come vi siano alcune personalità con una maggiore predisposizione a sviluppare sintomi di questo tipo: le personalità depressive appunto. Di esse abbiamo già descritto l’affettività, il temperamento, le peculiarità e i meccanismi difensivi che le caratterizzano. In questo lavoro, invece, inizieremo ad approfondire un altro aspetto fondamentale: quello della qualità delle relazioni e delle cosiddette relazioni oggettuali.
Relazioni oggettuali ed esperienza di perdita
Che cosa si intende per relazioni oggettuali? Esse sono quelle relazioni che si instaurano con le persone presenti nel mondo esterno, in particolare con le figure genitoriali durante l’infanzia, e con le persone e le fantasie interiorizzate e custodite nel proprio mondo interno, altrettanto importanti per lo sviluppo della propria personalità. Nell’ambito della depressione e delle personalità depressive, lo psicologo non può non prendere in considerazione la tematica della perdita nell’ambito delle relazioni, elemento cardine nella costruzione della personalità depressiva. Nello sviluppo di questi individui gioca pertanto un ruolo chiave l’esperienza di perdita precoce o ripetuta. Le origini della sofferenza depressiva risiedono in esperienze precoci di separazione da una figura di riferimento, una persona significativa, che in termini tecnici definiamo “oggetto d’amore”.Sia ben chiaro: quando parliamo di “esperienze precoci di perdita o separazione” non intendiamo necessariamente una perdita reale. Nell’ambito delle relazioni oggettuali, l’esperienza di perdita o separazione può anche essere squisitamente interna: per esempio, il bambino che, su pressione di mamma o papà, rinuncia ad utilizzare il ciuccio prima che sia emotivamente pronto a questo passo. Spesso, situazioni di svezzamento precoce possono innescare funzionamenti depressivi più o meno marcati. I bambini, se non vengono costretti troppo in fretta, sono in grado di svezzarsi autonomamente, in quanto lo slancio verso l’autonomia è altrettanto forte quanto il bisogno di dipendenza: eccessive forzature in questo ambito possono portare a funzionamenti depressivi che poi si riverberano inevitabilmente nel rapporto con l’altro, un rapporto che sarà all’insegna della rinuncia e della nostalgia.
Origini profonde del funzionamento depressivo
Scopriamo cosa ci dice la teoria delle relazioni oggettuali circa il funzionamento depressivo. Solitamente, nelle varie fasi di svezzamento e indipendenza di un figlio, la mamma avverte una certa sofferenza, mista ad una crescente soddisfazione per la conquista di autonomia da parte del bambino: un “mix” di orgoglio e angoscia per un fenomeno che genera ambivalenza, ossia gioia per la crescita del piccolo e dolore per la perdita di una fase della propria maternità che non tornerà mai più. Il bambino ha la percezione di questo vissuto contrastante della mamma e si aspetta da lei una piccola “dose” di commozione per le sue fasi importanti di cambiamento. Questo solitamente si verifica nelle condizioni ideali, dove si costruisce una serena relazione madre-bambino in cui la crescita del figlio è incoraggiata adeguatamente.
Nelle condizioni depressive invece la madre, di fronte alle spinte al cambiamento del figlio, può reagire in due modi differenti:
soffre talmente tanto per queste situazioni da aggrapparsi disperatamente al figlio facendolo sentire in colpa ogni volta che egli cerca di muoversi da solo. In questo modo, il messaggio implicito che viene trasmesso è “senza di te sarò sola e smarrita”. In un contesto del genere, il bambino percepirà i suoi naturali desideri di indipendenza come qualcosa di pericoloso e pertanto da evitare;
come reazione ai tentativi di raggiungimento di autonomia del proprio figlio, la mamma lo allonta di proposito invitandolo forzatamente a stare da solo, per esempio quando gioca o svolge attività ricreative. Con un approccio del genere il bambino col tempo odierà il proprio impulso fisiologico all’autonomia e indipendenza, con conseguenti sensi di colpa.
Sia in un caso che nell’altro, il bambino avvertirà come cattiva una parte importante del proprio sé. Questa cosa si rifletterà in maniera negativa nell’ambito delle relazioni sociali, delle relazioni oggettuali e della conoscenza del mondo, con un perenne senso di colpa e di inadeguatezza che ha origini molto profonde ma che ahimé non si riconoscerà più. Il bambino, una volta divenuto adulto, rimarrà con un “dolore senza nome” che lo accompagnerà per tutta la vita, se non intraprenderà un percorso psicologico.
In questo senso, la psicoterapia col paziente depresso costituisce uno strumento preziosissimo per ricostruire la relazione con l’altro, alla luce delle esperienze deficitarie del passato. Si cercherà pertanto di recuperare quel vissuto interno di perdita che per troppo tempio ha condizionato l’esistenza e la qualità delle relazioni.
Dott. Davide Ivan Caricchi
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