In diversi articoli abbiamo affrontato il tema complesso del disturbo borderline di personalità, un disagio psichico sfaccettato e articolato che si pone all’interfaccia tra disturbo nevrotico e disturbo psicotico, in quanto vengono utilizzati in maniera disfunzionale sia alcuni meccanismi difensivi più evoluti (nevrotici) sia meccanismi difensivi più primitivi (che rimandano ad un funzionamento psicotico).
Il termine borderline significa infatti “confine”, proprio perché in questo disturbo ravvisiamo un funzionamento nevrotico che si alterna ad un funzionamento psicotico che si attiva nei momenti di maggiore sollecitazione emotiva.
In questo lavoro inizieremo una disamina del concetto di “borderline” e della sua evoluzione.
Il concetto di borderline si può concepire in due accezioni: disturbo borderline di personalità e organizzazione borderline di personalità. Nel primo caso si intende un vero e proprio quadro sintomatologico mentre nel secondo una tipologia di funzionamento psichico duraturo e pervasivo che caratterizza l’individuo.
Soffermiamoci ora sulle origini della parola “borderline”. Furono gli studiosi Stern e Knight ad adottare per primi questo termine, quando iniziarono a imbattersi in pazienti con una sintomatologia prevalentemente nevrotica che non sembrava provocare perdita di contatto con la realtà.
Tuttavia questi soggetti, se sottoposti ad un trattamento psicoanalitico (un trattamento psicologico che mette il soggetto di fronte ad aspetti profondi del Sé, alle proprie resistenze al cambiamento e alle proprie conflittualità) invece che migliorare tendevano a regredire gravemente.
Stern e Knight compresero che questi pazienti presentavano una “facciata” nevrotica ma un “mondo interno” tipico della psicosi. Questi disturbi psichici furono collegati alla schizofrenia, tant’è che ai tempi di Stern e Knight (tra gli Anni ’30 e gli Anni ’50) il disturbo borderline veniva denominato “schizofrenia pseudonevrotica (Hoch e Polatin, 1949).
A quei tempi, di questi pazienti non si capiva granché. Riguardo il trattamento psicoterapeutico di tale sindrome, si brancolava un po’nel buio. Successivamente gli studi di Otto Kernberg fecero chiarezza.
Otto Kernberg rappresenta uno dei più influenti psicoanalisti del XX secolo e il suo lavoro ha avuto un impatto significativo sulla comprensione dei disturbi di personalità, in particolare del disturbo borderline di personalità e dell’organizzazione borderline di personalità (OBP).
Kernberg ha sviluppato un modello teorico che ha contribuito a chiarire molte delle ambiguità diagnostiche e terapeutiche che circolavano intorno al concetto di “borderline”.
Kernberg ha introdotto il concetto di “organizzazione borderline di personalità” per descrivere un livello di funzionamento psichico che si trova a metà strada tra la nevrosi e la psicosi. Secondo Kernberg, l’organizzazione borderline si caratterizza per:
Kernberg ha descritto il disturbo borderline di personalità come una manifestazione clinica di un’organizzazione borderline della personalità, caratterizzata da una serie di sintomi specifici:
Dal punto di vista clinico e terapeutico, uno dei principali contributi di Kernberg è stato lo sviluppo della Terapia Basata sul Transfert (Transference-Focused Psychotherapy, TFP), un approccio terapeutico specificamente progettato per trattare i pazienti con disturbo borderline di personalità. La TFP si concentra sull’analisi delle dinamiche di transfert che emergono nella relazione terapeutica:
In generale, possiamo dire con assoluta certezza che il lavoro di Otto Kernberg ha rivoluzionato la comprensione del disturbo borderline di personalità fornendo un quadro teorico che ha reso possibile non solo una diagnosi più accurata ma anche lo sviluppo di trattamenti più efficaci.
La sua distinzione tra l’organizzazione borderline di personalità e la psicosi ha permesso di collocare i pazienti con disturbo borderline di personalità all’interno di un continuum di funzionamento psichico riconoscendo la complessità e la profondità del loro mondo interno.
La TFP, sviluppata da Kernberg, rimane poi una delle terapie più utilizzate per il trattamento del disturbo borderline di personalità evidenziando l’importanza del suo contributo nella pratica clinica.
I trattamenti psicoanalitici tradizionali, originariamente sviluppati per pazienti nevrotici, si sono rivelati spesso inefficaci, e talvolta controproducenti, nel trattamento dei pazienti con disturbo borderline di personalità. Questo fallimento è dovuto a diverse ragioni legate alle caratteristiche specifiche del funzionamento psichico borderline.
Uno dei tratti distintivi del funzionamento borderline è l’uso di meccanismi di difesa primitivi, in particolare la scissione (split). La scissione si manifesta come un’incapacità di integrare gli aspetti positivi e negativi di se stessi e degli altri portando a percezioni dicotomiche e rigidamente polarizzate: le persone sono viste come totalmente buone o totalmente cattive, senza vie di mezzo.
Nella psicoanalisi tradizionale, lo psicologo cerca di esplorare le dinamiche inconsce del paziente mettendolo in contatto con le proprie resistenze e conflitti interni.
Tuttavia, i pazienti borderline, a causa della loro tendenza a scindere, non riescono a mantenere una percezione stabile dell’analista. Quando il terapeuta inizia a esplorare aspetti dolorosi o conflittuali del paziente, questo porta il paziente stesso a percepire l’analista come completamente ostile o persecutorio provocando a una rottura del rapporto terapeutico.
I pazienti borderline sono noti per la loro instabilità emotiva. Nella terapia psicoanalitica tradizionale, la lentezza e la profondità dell’esplorazione possono scatenare reazioni emotive molto forti che il paziente borderline fatica a gestire.
Questa instabilità emotiva porta spesso a esplosioni di rabbia, disperazione, o idealizzazione e svalutazione dell’analista. Tutto questo rende difficile mantenere un processo terapeutico continuo e coerente.
Inoltre, l’esposizione a sentimenti intensi e conflittuali durante il trattamento psicoanalitico può amplificare l’angoscia del paziente portando a regressioni psicologiche piuttosto che a progressi. Questa regressione può manifestarsi in comportamenti autolesionistici, atti impulsivi o crisi psicotiche transitorie complicando ulteriormente il trattamento.
Nel trattamento dei pazienti borderline, il transfert e il controtransfert assumono una complessità particolare. Il transfert (la proiezione di sentimenti e fantasie inconsce del paziente sull’analista) nei pazienti borderline è spesso molto intenso e instabile, con oscillazioni rapide tra idealizzazione estrema e svalutazione totale.
Questo fenomeno può portare l’analista a reazioni emotive forti e talvolta difficili da gestire, un processo noto come controtransfert. Se l’analista non è adeguatamente preparato per gestire queste dinamiche, il rischio è che le proprie reazioni possano influenzare negativamente la terapia.
Gli analisti possono diventare troppo distaccati nel tentativo di proteggersi dalle intense emozioni del paziente, oppure possono essere inconsciamente coinvolti nelle dinamiche distruttive del paziente contribuendo al fallimento del trattamento.
Un’altra caratteristica centrale del funzionamento borderline è l’incapacità di elaborare e simbolizzare le proprie esperienze emotive. Nella psicoanalisi tradizionale, si lavora molto sull’interpretazione dei simboli e dei sogni per accedere all’inconscio del paziente.
Tuttavia, i pazienti borderline spesso hanno difficoltà a simbolizzare le loro esperienze, a causa della loro percezione concreta e “letterale” del mondo. Questo limita la loro capacità di beneficiare delle tecniche interpretative tradizionali.
La difficoltà a simbolizzare porta anche a una reazione più diretta e meno mediata agli stimoli emotivi, reazione che in terapia si traduce in veri e propri “agiti” (acting out) piuttosto che in elaborazioni verbali. Questo rende complicato il lavoro terapeutico, poiché il paziente non riesce a riflettere sulle proprie esperienze in maniera serena e consapevole.
I pazienti borderline tendono a essere fissati su relazioni oggettuali primitive. Nella terapia psicoanalitica, l’esplorazione di queste dinamiche può riattivare profonde ansie di abbandono e rifiuto.
L’approccio psicoanalitico tradizionale, che prevede un’interpretazione delle dinamiche relazionali passate per comprendere il presente, può essere vissuto come una minaccia per il paziente borderline che percepisce l’interpretazione come un potenziale rifiuto o distacco da parte dell’analista. Questo può portare il paziente a reagire in modo difensivo o a interrompere la terapia.
Il fallimento dei trattamenti psicoanalitici tradizionali con i pazienti borderline è in gran parte dovuto alla complessità e alla fragilità del loro funzionamento psichico.
Le difese primitive, l’instabilità emotiva, la difficoltà nel gestire il transfert e controtransfert, l’incapacità di simbolizzare e la fissazione su relazioni oggettuali primitive rendono questi pazienti particolarmente difficili da trattare con le tecniche psicoanalitiche tradizionali.
Questo ha portato allo sviluppo di nuovi approcci terapeutici, come appunto la terapia basata sul transfert di Kernberg, terapia che si adatta meglio alle specifiche esigenze dei pazienti borderline.
In principio, i pazienti con un funzionamento che in seguito verrà appunto definito ”borderline” non riuscivano ad essere inquadrati correttamente dal punto di vista diagnostico e soprattutto non venivano trattati, in quanto le oscillazioni tra funzionamento di tipo nevrotico e funzionamento più strettamente psicotico erano continue e destabilizzanti.
Ecco che inizialmente questo tipo di disagio psichico venne definito “pseudonevrosi” e successivamente “schizofrenia pseudonevrotica”.
Origini e definizione del termine “pseudonevrosi”
Il termine “pseudonevrosi” fu coniato per descrivere una condizione clinica in cui il paziente mostrava sintomi che, in apparenza, sembravano nevrotici ma che mascheravano una più profonda e grave patologia psicotica.
La parola “pseudo-” significa “falso” o “simile”, suggerendo che i sintomi nevrotici osservati non rappresentavano una nevrosi pura ma piuttosto un’apparenza che celava una condizione psichica più grave.
Il termine “schizofrenia pseudonevrotica” fu introdotto dagli psichiatri Hoch e Polatin nel 1949 per descrivere un sottotipo di schizofrenia che presentava prevalentemente sintomi nevrotici, come ansia, fobie, ossessioni, compulsioni e depressione, piuttosto che i classici sintomi psicotici, come deliri e allucinazioni.
Questi pazienti, a un primo esame, potevano sembrare affetti da un disturbo nevrotico. Tuttavia, a un’analisi più approfondita, emergevano caratteristiche psicotiche sottostanti, come la distorsione della realtà, confusione mentale e angoscia profonda.
Il quadro clinico risultava complesso perché, nonostante la presenza di sintomi nevrotici, questi pazienti mantenevano un legame fragile con la realtà che poteva rompersi sotto stress o durante un trattamento psicoterapeutico più profondo.
La schizofrenia pseudonevrotica rappresentava una sfida diagnostica significativa per gli psichiatri dell’epoca, poiché i sintomi nevrotici potevano mascherare la vera natura psicotica del disturbo. Questo portava a trattamenti inappropriati, poiché la terapia psicodinamica classica, orientata alla risoluzione dei conflitti nevrotici, spesso falliva nel trattare la sottostante struttura psicotica.
Nel corso degli anni, la nozione di schizofrenia pseudonevrotica è stata in gran parte assorbita nella diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità.
Con il progredire delle conoscenze psichiatriche e psicologiche, si è riconosciuto che molti pazienti precedentemente diagnosticati con schizofrenia pseudonevrotica avevano in realtà un’organizzazione borderline di personalità che comprendeva una vasta gamma di sintomi, tra cui quelli che riproducevano la nevrosi ma con una sottostante vulnerabilità psicotica.
In generale, il concetto di schizofrenia pseudonevrotica è stato cruciale per capire una categoria di pazienti che presentavano una serie di sintomi che non erano né puramente nevrotici né totalmente psicotici ma che si collocavano in una zona di “confine” tra questi due estremi.
Anche se oggi questo termine è meno usato, esso ha fornito le basi per lo sviluppo di diagnosi più precise e per una migliore comprensione delle dinamiche borderline. Questo ha permesso lo sviluppo di approcci terapeutici più mirati, capaci di rispondere efficacemente ai bisogni complessi di questi pazienti.
Entrando nel merito di questo disagio psichico, il disturbo borderline di personalità è un disturbo mentale caratterizzato da un modello pervasivo di instabilità nelle relazioni interpersonali, nell’immagine di sé e negli affetti, insieme a una marcata impulsività. Il disturbo borderline di personalità si manifesta tipicamente nell’adolescenza o nella prima età adulta e può presentarsi con i seguenti sintomi principali:
Queste caratteristiche fanno del disturbo borderline di personalità un disturbo complesso e spesso invalidante, che può influenzare gravemente la vita quotidiana delle persone che ne soffrono. Tuttavia, con un trattamento psicologico o un trattamento psicologico online adeguato, molte persone con disturbo borderline di personalità possono imparare a gestire i sintomi e a vivere una vita soddisfacente e stabile.
Dott. Davide Ivan Caricchi
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