Il periodo di “lockdown” a seguito dell’emergenza COVID-19 ha messo tutti noi sotto forte sollecitazione emotiva. Molte persone hanno sviluppato sintomi quali ansia, depressione, stress, cefalea, difficoltà digestive, disturbi del sonno, tachicardia, disturbi intestinali, astenia, disturbi psicosomatici, ecc.
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ToggleOra l’emergenza Covid sembra essersi attenuata, tuttavia permane un clima di insicurezza e precarietà, non soltanto per i futuri sviluppi della diffusione del virus (paura di una seconda ondata della pandemia) ma anche per le conseguenze economiche causate da questa calamità. In tale clima di insicurezza molte persone sono esposte al rischio di manifestare un disturbo psichico legato alla reclusione forzata in casa: la Sindrome della Capanna. In questo articolo approfondiremo le principali caratteristiche e le cause alla base di questa sindrome.
La sindrome della capanna (che può essere definita anche Sindrome del Prigioniero o Cabin Fever) è un disturbo psichico ad oggi poco studiato e approfondito dalla comunità scientifica ma che presenta chiare evidenze a seguito di specifiche situazioni che si vengono a creare. Tale sindrome presenta una serie si sintomi di malessere e disagio psicofisico riconducibili al passaggio da una fase di distacco dalla realtà protrattasi per lungo tempo ad una fase in cui si torna a rapportarsi con l’ambiente esterno.
Ma quali sono le caratteristiche cliniche principali di questa sindrome? Cerchiamo di approfondirle analizzando sintomi principali.
La sindrome della capanna è una condizione psicologica caratterizzata da sintomi quali ansia, irritabilità e depressione, spesso associata a periodi prolungati di isolamento o confinamento. Sebbene non sia ufficialmente riconosciuta nei principali manuali diagnostici, come il DSM-5, ha attirato l’attenzione della comunità scientifica, specialmente durante la pandemia di COVID-19.
Il termine “cabin fever” è stato storicamente utilizzato per descrivere le reazioni psicologiche di individui che, dopo lunghi periodi di isolamento in ambienti ristretti, come cacciatori o cercatori d’oro, manifestavano difficoltà a reintegrarsi nella società. Durante la pandemia, molte persone hanno sperimentato sintomi simili a causa dei lockdown prolungati.
I sintomi associati alla sindrome della capanna includono ansia, irritabilità, tristezza, angoscia, difficoltà di concentrazione, mancanza di energia e motivazione, letargia, oltre alla sensazione di non appartenere alla società. Questi sintomi possono essere temporanei ma se persistono oltre tre settimane, è consigliabile consultare un professionista della salute mentale tramite un consulto psicologico, psichiatrico o tramite un consulto psicologico online.
È importante distinguere la sindrome della capanna da altre condizioni come l’agorafobia, che comporta una paura marcata di trovarsi in situazioni o luoghi dai quali potrebbe essere difficile allontanarsi o ricevere aiuto. Mentre l’agorafobia è un disturbo d’ansia riconosciuto, la sindrome della capanna è una reazione temporanea all’isolamento prolungato.
La sindrome della capanna può essere pertanto vista come una risposta psicologica all’isolamento prolungato. Riconoscere i sintomi e adottare strategie adeguate può facilitare il ritorno a una vita sociale equilibrata.
Per superare questa condizione, è utile esporsi gradualmente al mondo esterno iniziando con brevi passeggiate o commissioni in luoghi familiari. Mantenere relazioni sociali e condividere emozioni con amici o familiari aiuta a ridurre la sensazione di isolamento. Esercizi di respirazione e rilassamento, come la respirazione profonda, possono aiutare a gestire l’ansia. È inoltre importante limitare l’esposizione a notizie che possono aumentare lo stato di allerta e consultare uno psicologo o psicoterapeuta se i sintomi persistono.
La sindrome della capanna, o “cabin fever”, ha attirato l’attenzione di numerosi esperti in psicologia e psichiatria, specialmente durante e dopo la pandemia di COVID-19. Diversi ricercatori hanno evidenziato come l’isolamento prolungato può portare a una serie di sintomi psicologici tra cui ansia, depressione e una marcata riluttanza a reintegrarsi nella vita sociale.
La dottoressa Lucy Johnstone, psicologa clinica britannica, ha sottolineato che molte persone hanno vissuto il confinamento come un rifugio sicuro. Questo ha reso difficile il ritorno alla normalità.
Questa prospettiva è supportata da studi che evidenziano come l’isolamento possa alterare la percezione della sicurezza e influenzare negativamente la salute mentale.
Inoltre, il World Health Organization (WHO) ha riportato un aumento del 25% dei casi di ansia e depressione a livello globale durante la pandemia evidenziando l’impatto significativo del COVID-19 sulla salute mentale.
Questi dati sottolineano l’importanza di riconoscere e affrontare le conseguenze psicologiche dell’isolamento prolungato.
La dottoressa Sarita Robinson, psicologa e psicoterapeuta britannica, ha evidenziato come la sindrome della capanna descriva la situazione problematica nella quale, dopo un lungo confinamento, il ritorno alla normalità genera ansia e stress.
Il fenomeno della sindrome della capanna è stato osservato in diverse popolazioni durante la pandemia che hanno pertanto mostrato una risposta comune all’isolamento prolungato.
Queste osservazioni e dati sottolineano l’importanza di riconoscere la sindrome della capanna come una risposta psicologica significativa all’isolamento e la necessità di strategie efficaci per supportare le persone nel processo di reintegrazione sociale.
E’ ovvio che considerazioni e conclusioni in ambito di diagnosi differenziale vanno effettuate da esperti di salute mentale, tuttavia qualche informazione più dettagliata può essere utile per farsi un’idea iniziale su come può manifestarsi la sindrome della capanna in se stessi oppure in familiari o amici, così da non confonderla con altri disturbi psichici e poter orientarsi su come muoversi o come aiutare l’altro a richiedere il giusto intervento.
La sindrome della capanna può essere interpretata come una reazione psicologica specifica al confinamento prolungato in cui si evidenzia una combinazione di ansia anticipatoria e comportamenti di evitamento. L’ansia anticipatoria, un fenomeno ben documentato nella letteratura scientifica, si manifesta come una preoccupazione sproporzionata rispetto a eventi futuri percepiti come minacciosi. Nel contesto della sindrome della capanna, questa ansia è focalizzata sull’idea di lasciare l’ambiente domestico che è stato interiorizzato come una zona di sicurezza durante periodi di isolamento prolungato, come nel caso della pandemia di COVID-19.
L’ansia anticipatoria nella sindrome della capanna è strettamente legata al comportamento dell’evitamento patologico, una strategia difensiva caratterizzata dal tentativo di sfuggire a situazioni percepite come pericolose o angoscianti. Questo meccanismo, sebbene inizialmente adattivo, può portare a un rinforzo negativo del disagio psicologico: evitando di affrontare il mondo esterno, il soggetto conferma implicitamente le proprie paure rafforzando il circolo vizioso dell’ansia e del rifugiarsi in un luogo chiuso e percepito come sicuro.
Diversi studi sulla psicologia dell’isolamento sociale e sull’ansia situazionale hanno evidenziato come l’evitamento patologico sia una caratteristica comune in disturbi come l’agorafobia e il disturbo post-traumatico da stress (PTSD). In questi casi, l’evitamento non riguarda semplicemente il disagio associato a specifici stimoli ma si espande a una gamma più ampia di situazioni che limitano significativamente la vita quotidiana del soggetto.
La sindrome della capanna condivide alcune somiglianze con l’agorafobia, come la paura di trovarsi in spazi aperti o situazioni in cui potrebbe essere difficile ottenere aiuto. Tuttavia, esistono differenze sostanziali. L’agorafobia è un disturbo d’ansia classificato nel DSM-5, caratterizzato da una paura persistente e irrazionale di situazioni specifiche (es. trasporti pubblici, luoghi affollati) che porta a dinamiche di evitamento. La sindrome della capanna, al contrario, è considerata una reazione temporanea e situazionale al confinamento prolungato, senza necessariamente configurarsi come un disturbo psichiatrico autonomo.
Altri disturbi correlati includono il disturbo dell’adattamento, in cui il soggetto manifesta una risposta disfunzionale a un evento stressante, e alcune forme di disturbo evitante di personalità, caratterizzate da un ritiro sociale cronico e dalla ricerca di sicurezza in spazi familiari. Tuttavia, la sindrome della capanna si distingue per la sua origine situazionale e la possibilità di remissione spontanea con l’esposizione graduale al mondo esterno.
La comprensione della Sindrome della Capanna richiede un approccio integrato che tenga conto delle dinamiche cognitive, emotive e comportamentali. Dal punto di vista cognitivo, il soggetto sviluppa schemi rigidi legati alla percezione del mondo esterno come pericoloso. A livello emotivo, prevalgono sentimenti di ansia, insicurezza e vulnerabilità. Dal punto di vista del comportamento, l’evitamento diventa il tratto distintivo, contribuendo alla cronicizzazione della sindrome in alcuni individui.
Durante il periodo di lockdown imposto dalla pandemia di COVID-19, numerosi studi e sondaggi hanno documentato gli effetti dell’isolamento sulla salute mentale fornendo dati concreti che evidenziano un legame tra il confinamento prolungato e l’emergere di condizioni come la sindrome della capanna. Secondo un rapporto del CDC pubblicato nel 2021, il 41% degli adulti intervistati negli Stati Uniti ha riportato sintomi legati a disturbi d’ansia e depressione durante la pandemia, un incremento significativo rispetto al 2019. Inoltre, il 13% degli intervistati ha dichiarato di aver iniziato o aumentato il consumo di sostanze per gestire lo stress e l’isolamento.
Un’indagine condotta dalla University College London ha evidenziato che l’isolamento prolungato ha generato un aumento del 27% dei casi di insonnia e un incremento di sintomi psicosomatici come cefalea, disturbi gastrointestinali e dolori muscolari, che sono stati direttamente collegati all’ansia e alla tensione emotiva vissute durante il confinamento. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha inoltre riportato un aumento globale del 25% dei casi di disturbi mentali sottolineando come la pandemia abbia agito da catalizzatore per condizioni preesistenti o latenti.
Uno studio pubblicato su The Lancet Psychiatry ha messo in luce che il confinamento ha creato una “normalizzazione della reclusione“, con molte persone che hanno sviluppato una riluttanza marcata a reintegrarsi nella vita sociale, fenomeno che rientra nelle caratteristiche principali della sindrome della capanna. I dati raccolti indicano che questa tendenza si è manifestata anche in persone che non avevano precedenti diagnosi di disturbi d’ansia o depressione suggerendo che l’ambiente protettivo del proprio domicilio sia stato percepito come un rifugio sicuro. Questo ha reso la prospettiva del ritorno alla normalità un’esperienza ansiogena per una parte significativa della popolazione.
Infine, una ricerca condotta dalla Kaiser Family Foundation ha rivelato che il 36% degli adulti americani ha riportato un aumento significativo dello stress legato alla paura del contagio e alle incertezze economiche, con ripercussioni tangibili sulla salute mentale tra cui sintomi di alienazione, apatia e irritabilità. Questi dati dimostrano che l’isolamento non solo ha esacerbato disturbi mentali già esistenti ma ha anche portato all’emergere di nuove forme di disagio psicologico, di cui la sindrome della capanna rappresenta un esempio emblematico.
Un intervento efficace per il trattamento della sindrome della Capanna, e di tutte problematiche psicologiche o psichiatriche ad essa correlate, è rappresentato dalla terapia cognitivo-comportamentale (CBT). La CBT si concentra sull’identificazione e la modifica dei pensieri disfunzionali che alimentano la percezione del mondo esterno come pericoloso e dell’ambiente domestico come unico rifugio sicuro. Attraverso tecniche come la ristrutturazione cognitiva, il paziente viene aiutato a sviluppare interpretazioni più realistiche delle proprie paure, mentre gli esercizi di esposizione graduale consentono di affrontare progressivamente le situazioni temute riducendo l’evitamento e rafforzando il senso di sicurezza nelle proprie risorse e capacità.
Un ulteriore strumento terapeutico nella CBT è l’addestramento alla gestione dell’ansia che comprende tecniche di rilassamento come la respirazione diaframmatica e il rilassamento muscolare progressivo, utili per ridurre la risposta fisiologica allo stress associata all’idea di lasciare la comfort zone. Questi interventi mirano non solo a migliorare la capacità di gestione dei sintomi immediati ma anche a favorire un progressivo recupero della fiducia in se stessi e nelle proprie risorse.
Dall’altro lato, l’approccio psicodinamico può offrire un contributo significativo per esplorare le radici emotive e simboliche della sindrome della capanna. La psicoterapia psicodinamica si concentra sull’analisi del senso di sicurezza attribuito alla comfort zone aiutando il paziente a comprendere come le dinamiche relazionali passate e le esperienze di vulnerabilità abbiano contribuito alla costruzione di una percezione del mondo esterno come minaccioso. Attraverso il lavoro terapeutico, il paziente può acquisire una maggiore consapevolezza dei conflitti inconsci che alimentano l’ansia legata al cambiamento e al reinserimento sociale.
Un aspetto cruciale del trattamento psicodinamico è la possibilità di elaborare i significati simbolici attribuiti alla casa come rifugio. Spesso questa rappresentazione può essere associata a bisogni emotivi profondi, come il desiderio di protezione o la paura dell’abbandono. Lavorare su questi aspetti consente al paziente di sviluppare una maggiore flessibilità psicologica facilitando un graduale distacco dalla comfort zone senza percepire il cambiamento come una minaccia.
Un percorso psicologico a indirizzo psicodinamico con un paziente che ha manifestato la sindrome della capanna deve presentare assolutamente un approccio attento e rispettoso dei tempi e degli spazi del paziente stesso, in un contesto accogliente e non giudicante che consenta, attraverso un ascolto attivo e partecipe, di sondare a poco a poco emozioni e conflitti alla base dell’insorgenza di questa sofferenza psichica.
Sulla base dell’esperienza clinica con pazienti che hanno manifestato questo tipo di sindrome, riportiamo un esempio di come potrebbe svilupparsi uno scambio di riflessioni in un seduta di psicoterapia a indirizzo psicodinamico con un paziente con sindrome della capanna.
Terapeuta: Buongiorno. Da dove partiamo oggi?
Paziente: Buongiorno, dottore. Non molto bene. Ogni volta che penso di uscire di casa, mi sento sopraffatto dall’ansia. È come se la mia casa fosse l’unico posto sicuro al mondo.
Terapeuta: Capisco. È come se ci fosse una netta divisione tra l’interno, che percepisce come sicuro, e l’esterno, che appare minaccioso. Mi parli un po’ di cosa sente quando immagina di uscire.
Paziente: È difficile da spiegare. È un misto di paura, come se fuori potesse succedere qualcosa di brutto, avverto un senso di vulnerabilità. Non mi sento all’altezza, quasi come se il mondo fosse troppo grande e io troppo piccolo.
Terapeuta: Questo senso di vulnerabilità e di sproporzione rispetto al mondo esterno l’ha mai provato prima? Magari in altre situazioni o momenti della sua vita?
Paziente: Sì, forse da bambino. Mi ricordo che avevo paura di affrontare cose nuove. Mi rifugiavo sempre nella mia stanza quando qualcosa mi metteva a disagio. Mi sentivo protetto lì.
Terapeuta: Interessante. Mi sembra che questa “protezione” che sente oggi nella sua casa richiami quel rifugio della sua infanzia. La casa non è solo un luogo fisico per lei ma assume un significato emotivo, come un guscio che la protegge dal mondo.
Paziente: È possibile. Non ci avevo mai pensato in questi termini. La mia casa è come una barriera, un confine sicuro tra me e il caos là fuori.
Terapeuta: Mi sembra che questo confine tra casa e mondo esterno abbia un valore simbolico importante per lei. Forse rappresenta qualcosa di più profondo, come il bisogno di sentirsi protetto o di avere controllo. Mi chiedo cosa potrebbe accadere se iniziasse a pensare alla casa non solo come un rifugio ma anche come una base da cui partire sapendo che può sempre tornare.
Paziente: Mi fa paura pensare di lasciare questa sicurezza ma, detto così, mi suona meno minaccioso. È come dire che non sto abbandonando la mia sicurezza ma la sto portando con me.
Terapeuta: Esatto. È un’immagine molto potente. Potremmo provare a lavorare insieme su come portare con sé questa sensazione di sicurezza, anche al di fuori della casa. Che ne pensa?
Paziente: Credo che potrei provarci. È la prima volta che sento di avere un modo per affrontare questa paura.
Terapeuta: Bene. Per oggi potrebbe riflettere su un piccolo passo che si sente di fare, magari uscire per una breve passeggiata vicino casa portando con sé un oggetto che per lei rappresenti la sicurezza, come un talismano o un oggetto per lei simbolico.
Paziente: Mi piace l’idea. Sì, ci proverò. Grazie, dottore.
Terapeuta: È un ottimo inizio. Ne parleremo meglio la prossima volta. Per ora, rifletta su come si sente rispetto a questa proposta e porti con sé questa immagine di casa come base sicura, non come gabbia. A presto.
Paziente: A presto. E grazie.
Dott. Davide Ivan Caricchi
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